“Noi siamo tutti, e sempre, immersi nel pericoloso fiume della vita.
Nessuno di noi, per il fatto stesso di essere un sistema vivente,
sta a riva. La duplice domanda è:
- Quanto è pericoloso questo fiume?
- Quanto bene sappiamo nuotare?”
(Antonovsky, 1987)
In uno degli esami dati per la mia seconda laurea in Pedagogia Speciale (per la disabilità e la marginalità sociale), nelle specifico l’esame di “Personalità e devianza”, ho potuto apprendere come gli studi attuali tendano a definire le problematiche adolescenziali non più come comportamenti devianti o problematici, bensì come comportamenti a rischio. Questo significa che l’attenzione è rivolta alla persona, o meglio all’adolescente soggetto dell’azione, piuttosto che alla società e ai potenziali danni o disagi che un determinato comportamento possa causare alla stessa. Ci si sposta dunque dalla considerazione di forme di rischio più legate a condotte esteriori (esternalizzato) a forme di rischio maggiormente connesse ai vissuti, alla sfera affettiva e relazionale (internalizzato).
La storia di Tommaso che leggiamo in Us - evidentemente scritta da una persona esperta del settore, l’autore Michele Cocchi è uno psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza -, parla proprio di un caso di comportamento a rischio “internalizzato”, nello specifico quello che gli psicologi chiamano hikikomori. Il protagonista sedicenne per un periodo molto lungo, più di diciotto mesi, non esce di casa, quasi dalla sua stanza, e confinato tra le pareti della sua camera si dedica a videogiochi, anime, manga, fumetti e video su YouTube. A stento mangia qualcosa, a stento parla con qualcuno.
Il fatto che non sia “offensivo” o che non abbia impatti forti sulla società non rende tale atteggiamento meno terribile rispetto a chi invece, da adolescente, passa da altri tipi di “casini” come tagliarsi, drogarsi o fare a botte ferendo in maniera irrimediabile qualcun altro. La posta in gioco è sempre alta e i primi a risentirne sono i giovani protagonisti di tali difficoltà.
Da genitore ed educatrice non posso che chiedermi quanto siano responsabili gli adulti in questo genere di forme di devianza. Mi spiego meglio. I miei figli sono più che “millennials”, nel senso che sono nati un bel po’ dopo il 2000 e il mio secondo, che ha 4 anni, mi ha chiesto recentemente con un linguaggio perfetto di cercargli su YouTube la canzone di Sebastian della Sirenetta. Volenti o nolenti sono circondati dalla tecnologia, la respirano, anche se - come nel mio caso - stiamo attenti a indirizzarli ad altro.
Allora non posso che chiedermi, leggendo la storia di Tommaso, quanto segue. Come è possibile che un ragazzino preferisca rinchiudersi nella sua stanza, dentro al suo pc, dentro ad un video gioco, in una giungla immaginaria della Colombia o nel deserto del Sud Africa, piuttosto che tagliare l’erba in giardino? O prendere il sole? O raccogliere le ciliegie le verdure dall’orto insieme al suo papà?
Cosa c’è alla radice di questo atteggiamento? Quanta responsabilità abbiamo noi genitori ed educatori ? L’abbandono scolastico è un’altra faccia della stessa medaglia, della stessa incapacità del mondo adulto di accogliere le esigenze delle nuove generazioni. Non si tratta di trovare colpe, ma semplicemente di cercare un modo per prevenire tali atteggiamenti, che non sono in fin dei conto altro che richieste d’aiuto.
In una scena toccante del libro la madre di Tommaso, esasperata, spacca con l’accetta il computer per scuotere il figlio e farlo tornare alla normalità, alla vita fuori, a scuola, agli allenamenti, agli amici. Ma sortisce l’effetto contrario, suo figlio, trema e finisce in un’apatia ancora più totale. Per fortuna ci sono gli esperti. Il centro Asl per le dipendenze da videogioco rassicura i genitori che il problema è un altro e che forse il videogioco sta aiutando il loro figlio.
E ciò che sembrava il nemico, il male, forse in realtà è la cura. Così i genitori comprano a Tommaso un nuovo computer e finalmente trova un gioco, Us - da qui il titolo del libro -, che lo spinge a confrontarsi con dei compagni, a relazionarsi con delle altre persone, seppur in forma di avatar.
“Lo scafandro è andato in pezzi vero?” dice d’un tratto Angela (scil. la psicologa) con voce comprensiva.
Tommaso la guarda e annuisce lentamente, sente le lacrime arrivare e scorrere nonostante lo sforzo per trattenerle. “Vorrei soltanto giocare, oppure non pensarci più, dimenticarmi tutto,” dice con voce rotta, “ma è più forte di me.”
Angela si tende verso di lui allungandogli un fazzoletto.
“Fa paura lo so, ma Us ti ha portato sulla Terra Tommaso, e sulla Terra si fa amicizia, si soffre, ci si arrabbia…”
Non deve stupirci dunque che negli ultimi anni i videogiochi vengano utilizzati dagli esperti come laboratori per l’identità, come strumenti per l’assessment psicologico. “Avatar” è un termine che deriva dal sanscrito e significa incarnazione. Non a caso l’avatar di Tommaso al posto del volto ha la maschera di un teschio, e chissà se, riuscendo a cambiare l’immagine di sé nel mondo virtuale ad attribuirsi in altre parole un volto, egli non riesca in futuro a migliorare anche il suo atteggiamento nei confronti della realtà.
Bellissima recensione, io non credo nella responsabilità dei genitori in questi comportamenti e spero da mamma che mio figlio preferisca correre e giocare fuori o magari rimanga su una panchina a leggere un libro. Libro molto interessante
RispondiEliminaUn libro che conto di leggere, anche grazie alle tue impressioni che mi hanno colpito 💚
RispondiEliminaQuesto libro lo recupero di sicuro, mi stai aprendo un mondo
RispondiEliminaBellissima recensione, sentita e approfondita. Ora non mi resta che leggerlo
RispondiEliminaHo visto questo libro spesso su Instagram, mi incuriosisce un sacco!
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