Devo ammettere che mi sono approcciata al libro Il corpo della femmina di Veronica Pacini con buone aspettative che all’inizio sono state corrisposte. Una scrittura visiva coinvolgente fatta di immagini, più che di parole. Anche la trama inizialmente mi ha colpito, per niente lineare, quasi quadri che spennellano momenti salienti di vita intorno al tema centrale del corpo.
Erica, la protagonista, e’ alla prese con l’accettazione del proprio corpo a partire dalla prima infanzia, passando all’adolescenza fino alla soglia dell’età adulta.
Un misto di effettiva critica sociale relativa all’attribuzione dell’identità personale a partire dal genere, scandita da determinate tappe di sviluppo: un primo accenno di seno, le mestruazioni, le prime palpatine sul sedere da parte dei compagni di classe delle medie, accettate per sentirsi parte di qualcosa, per sentirsi viste.
Quindi la pubertà. Il digiuno di giorni per cercare di esistere a prescindere dalla carne, una certo misticismo cristologico, quasi una vocazione spirituale, premonizione del dolore autoniflitto.
L’adolescenza è solitudine in mezzo agli altri, rifugio nella masturbazione, tentativo di provare piacere.
Post adolescenza: Erica ormai è all’università ma ancora non è scesa a patti con la propria fisicità e non ci scende neanche dopo l’autolesionismo che culmina in un tentato suicidio.
"La trasformazione si da’ nel sangue, nel dolore. Le mestruazioni, il primo rapporto sessuale, il parto. Tagliuzzare il proprio corpo in una foresta africana, o nel bagno di una casa di studenti. Sangue e dolore. Mi specchiai nella lametta, ne appannai la lucentezza sussurrandomi sopra una piccola preghiera, una lode alla metamorfosi."
L'autrice più che un romanzo, ci presenta un excaletion continua di dissoluzione e martirizzazione del proprio corpo, tanto che da lettrice non ho capito il senso di tale sfacelo. Qual'è lo scopo o l'obiettivo finale di questo triste "percorso critsologico"? La ricerca della propria anima forse? Della propria inclinazione sessuale? Semplice annichilimento?
L'unica risposta plausibile sarebbe a mio avviso quella della mancata accettazione della propria inclinazione sessuale, oppure una certa passività riguardo alla propria esistenza, in quache modo ancora imbrigliata in un obsoleto dualismo platonico di anima e copro.
Mi sono arenata alle ultime cinquanta pagine, ma non per la tematica dell'abisso legato alla prostituzione del proprio corpo, anzi generalmente apprezzo le tematiche disturbanti, ma qui anche la prosa dell’autrice che inizialmente mi aveva colpito alla fine mi pesava. Metaforica, carnale anch’essa resta incapace di restituire salvezza, nelle parole almeno.
"L’unica cosa che sospettavo era che non avrei più riprovato a usare la coppetta, che non avrei fatto la rivoluzione ne’ la pace con la mia carne riottosa, che non avrei mai smesso di piangere sotto la doccia dopo aver fatto l’amore, che non avrei mai più goduto di un piacere puro e luminoso come a tredici anni e che ogni piccolo, sudato orgasmo mi avrebbe consegnata tutta intera e indifendibile alla vergogna."
Belle frasi di autostima e insegnamento di vita
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