Un assassino ci deve essere per forza perché così ci si deve aspettare da personaggi di una trilogia di polizieschi intitolata “La serie di Copenaghen” come quella scritta da Katrine Enberg, di cui fanno parte nell'ordine: "Il guardiano dei coccodrill"i, "Ali di vetro" e l'ultimo, appena uscito, "Il porto degli uccelli".
Abilmente nascosto tra potenziali assassini, quello giusto si svela alla fine come spontaneo prodotto di trame malate, soprattutto famigliari perché il disagio serpeggia anche nelle migliori famiglie, nelle faticose pieghe di quelle dei cattivi e di quelle dei buoni, in parti uguali.
Così come in “Ali di Vetro”, di cui qui si vorrebbe dare un assaggio senza entrare nella storia, anche il filo rosso degli altri libri è la famiglia, nelle sue fragilità, disavventure e responsabilità dove la figura della madre ne fa le spese. In questo libro è ridotta a una sorta di topos da psicanalisi, nudo nella sua ovvietà.
All’inizio la madre l’accompagnava spesso in terapia, il che aveva posto un grosso freno alle confidenze; ora che la ragazza veniva da sola andava meglio.
“Che sono…” La ragazza fece un respiro che le arrivo sino in cima al petto. “Che sono arrabbiata con la mamma.”
La mamma. Era sempre la mamma, la causa dello squilibrio di una persona. A volte anche il pare assente, ma quasi sempre era la mamma inadeguata.
È bellissimo che il libro sia dedicato alla madre dell’Autrice, “eroina e mamma”. Ma oltre alla “madre” c’è il senso di colpa descritto dalla vita di uno psichiatra:
Si ricordi che le emozioni non si presentano mai da sole. La vendetta è inscindibilmente legata al rimorso, e il senso di colpa si accompagna sempre al sentimento di ingiustizia che si prova per essere stati costretti a compiere l’atto di cui ci si sente colpevoli.
Insomma pane per i denti e lavoro extra di due poliziotti diversissimi tra loro, Kørner e Werner, dai nomi che risuonano simili tanto da far da bersaglio dei lazzi dei colleghi. Sono un uomo e una donna, colleghi e amici, ma anche un po’ compagni di banco con sfottò e critiche reciproche anche aspre.
Lui, Jeppe, si capisce fra le righe che è bello e affascinante mentre è proprio chiaro che sa parlare e far parlare la gente. Anche lui però entra nel grande giro del rapporto con la madre.
Come soluzione temporanea poteva pur essere pratica, ma tornare a casa dalla mamma dopo una separazione non era divertente. Soprattutto era incredibile quanto fosse rimasta a fior di pelle l’irritazione dell’adolescenza, pur essendo tanti anni che non viveva più in famiglia; anche solo il modo in cui lei poteva chiedergli di strizzare los traccio lo rispediva dritto a quel ragazzetto timoroso che era stato venticinque anni prima.
Lei è audace e sa mettersi in situazioni estreme, pur avendo famiglia. Ama troppo il suo lavoro e l’avventura e così Katerine Engberg presenta anche a lei il conto del rapporto materno. Questa volta però la direzione è opposta:
Annette, sconsolata, pensò a se stessa; le villette di Holmeås illuminate avevano un’aria calda e accogliente, mentre lei eccola lì che si trascinava come un catorcio, cantando al buio per una pupa sfinita.
D’altra parte, che persona sei se non dai prova delle tue capacità? Avere una figlia è una prova sufficiente? In realtà, è un compito che dovresti saper svolgere d’istinto, ma che ti coglie del tutto impreparata perché da sempre ti sei fatta il mazzo per perfezionarti in qualcos’altro. E tutto mentre la bambina avverte la tua incompetenza cosmica e l’ansia di sbagliare, e giustamente si innervosisce. Non è facile.
Per entrambi, Jeppe e Annette, si resta con il fiato sospeso e si fa il tifo per due personaggi profondamente umani con il loro carico personale.
Copenaghen è bellissima e amatissima, si direbbe un invito a andarci in tutte le stagioni a esplorarne i quartieri risorti e frutto di progetti di riqualificazione ben riusciti di cui evidentemente l’Autrice è orgogliosa. Da questo punto di vista ci sono ottimi suggerimenti per immobiliaristi globalizzati.
La riflessione sugli stati d’animo di uno scrittore alle prese con l’inizio della sua opera innerva pensieri e azioni di uno dei personaggi che ricorre in tutti e tre i libri della serie. Sembrerebbe quasi un auto-monito rivolto dall’Autrice a se stessa, ma non ne ha davvero bisogno, come è evidente nel risultato concreto di questo suo libro (il più voluminoso) e degli altri due.
di Giovanna Bagnasco
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