Ho letto ultimamente tre bellissimi libri, guarda caso tutti tradotti da Elisa Banfi, che oggi ho l’onore di poter intervistare qui sul blog dopo averla conosciuta di persona al Salone del libro di Torino (SalTo21). I libri in questione sono Ladra di parole, La strada delle nuvole, e Matrimonio in cinque atti. I libri sono stupendi e il lavoro della traduttrice è davvero mirabile.
In quanto traduttrice io stessa, anche se dal tedesco, non posso che apprezzare il lavoro svolto, soprattutto per quanto riguarda Ladra di parole che è un libro scritto con un inglese volutamente sgrammaticato.
1. Elisa, puoi raccontarci qualcosa di te e di come sei diventata traduttrice?
Lavoro nell’editoria da più di vent’anni e ci sono arrivata dopo una laurea in lingue senza un indirizzo specifico. (Non era ancora epoca di master e corsi di specializzazione.) I libri sono sempre stati la mia passione ma la verità è che dopo la laurea ero un po’ indecisa su come proseguire. Ho cominciato a pensare alla traduzione come un tappabuchi, in attesa di trovare un “lavoro vero”, e invece ho scoperto che il mio lavoro vero è questo. Per ma vale quel modo di dire: fai un lavoro che ti piace e non avrai lavorato neanche un giorno in vita tua.
2. Che genere di libri preferisci tradurre?
Quando dico a qualcuno che di mestiere traduco libri, la risposta più frequente è: “Allora leggerai un sacco di libri bellissimi!” Naturalmente è vero ma in realtà, per me, che il libro sia una buona lettura è irrilevante. La cosa importante è che stimoli la mia creatività. Uno stile troppo lineare, che non mi costringe a fare una ricerca sintattica e lessicale, alla lunga (tradurre un libro è un lavoro molto lungo) risulta sfibrante. Io ho bisogno di sfide per tirare fuori il meglio che so fare.
Preferisco tradurre la narrativa, in generale, ma qualunque libro che abbia il requisito di cui sopra mi attira.
3. Quale è, tra i libri citati il libro che è stato più difficile da tradurre e perché?
Ti rispondo senza esitazione che è stato La ladra di parole, forse il più difficile in assoluto della mia carriera. Quando me l’hanno proposto, ho accettato con entusiasmo per i motivi di cui dicevo. Era una sfida. Oltretutto sentivo di aver raggiunto una maturità professionale che mi avrebbe consentito di affrontare qualunque testo.
Di fatto, la singolarità della lingua di Adunni, la protagonista che racconta in prima persona, mi ha subito rimesso al mio posto. La difficoltà non era tanto quella di tradurre un inglese non standard, ma di dare una voce autentica a una quattordicenne africana priva di istruzione. È stato l’unico libro per cui ho dovuto tentare diverse strategie prima di trovare quella giusta. Ho dovuto ricominciare da capo più di una volta, provando a sentire le sue parole, pronunciandole a voce alta, immaginando di parlare nella vita quotidiana in un modo meno mio e più suo. Penso di avercela fatta, ma è stato un lavoro unico, più che di traduzione, di identificazione con la voce del testo.
La cosa curiosa è che l’autrice, Abi Daré, ha detto esattamente la stessa cosa del suo processo di scrittura.
4. Cosa ne pensi delle traduzioni dei titoli che spesso travolgono l’originale? Anche nel caso di Matrimonio in cinque atti, in inglese Stranger and Cousins, è molto diverso, come mai?
Il titolo di un libro è in gran parte una faccenda di marketing. Deve risultare accattivante e convincente, oltre che dire qualcosa del libro stesso. Per questo motivo, in casa editrice si preferisce fare una scelta in linea con il catalogo e con gli obbiettivi che ci si prefigge per il libro e non sempre si chiede il consiglio del traduttore.
SUR invece mi ha chiesto di fare qualche proposta e Matrimonio in cinque atti è un titolo mio. Bisogna tenere presente due cose: i titoli che si discostano dall’originale vengono sottoposti per approvazione all’autore; e nessun manoscritto nasce con un titolo definitivo. In questo caso, quando abbiamo sottoposto il titolo a Leah Cohen, è venuto fuori che fra i suoi titoli di lavorazione ce n’era uno non molto diverso da Matrimonio in cinque atti, che le è piaciuto subito. Non è quindi un titolo irrispettoso o arbitrario come si potrebbe pensare, e questo vale anche per gli altri titoli molto diversi dagli originali.
Per fare la prova del nove, provate a tradurre letteralmente il titolo originale Strangers and Cousins, cioè «estranei e cugini». Vi sembra che funzioni?
5. Che consiglio daresti a chi vorrebbe oggi intraprendere il lavoro del traduttore/traduttrice?
Il consiglio migliore che abbia mai ricevuto (da Isabella Blum) è quello di non scoraggiarsi. Come in tutti i lavori “autonomi”, ci sono mille ostacoli e difficoltà, primo fra tutti quello dei compensi assolutamente inadeguati allo sforzo necessario a tradurre un libro. Ma se si è convinti di volerlo fare, il modo si trova.
Esiste anche un progetto di STRADE, il sindacato dei traduttori, che aiuta gli esordienti a orientarsi e fare i primi passi. Ci sono dei requisiti specifici e i posti sono limitati, ma si può sempre tentare.
6. Prossimi progetti?
Naturalmente molti progetti di traduzione. Mi aspetta un autunno impegnativo ma sicuramente gratificante con due libri di Gabrielle Zevin e Joseph O’Connor, che sono fra gli autori migliori che traduco.
E poi sto anche concretizzando un progetto di scrittura “in proprio”. Dopo tanti anni a riscrivere i romanzi degli altri, finalmente mi sono decisa a scriverne uno mio.
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