Viaggio intorno al mondo lungo il sessantesimo parallelo, di Malachy Tallack
Sin da piccola, forse per la lettura di Anna dai capelli rossi di Lucy M. Montgomery, ho subito il fascino del Grande Nord, di quei luoghi immensi ricoperti di neve quasi tutto l’anno, così diversi dalla realtà in cui sono cresciuta, cioè Milano.
Tallack parla di un viaggio compiuto a poco più di trent’anni lungo il sessantesimo parallelo - il filo rosso del libro - partendo dalle Shetland - il luogo dove viveva e il punto più a nord della Gran Bretagna - e spostandosi in senso orario verso la Groenlandia, il Canada, l’Alaska, la Siberia, San Pietroburgo e dintorni, la Scandinavia, per poi ritornare al punto di partenza arricchito da tutto ciò che aveva visto e vissuto, ma con tutte le domande cui aveva sperato di rispondere durante il viaggio, ancora prive di risposta.
«Quando mi sono messo in viaggio non avrei saputo dire che cosa sperassi di trovare, volevo partire e basta. Curiosità, inquietudine e nostalgia: mi avevano spinto loro ad andare, ed erano loro a incitarmi a proseguire. Chissà, forse speravo di soddisfare una volta per tutte quegli impulsi quasi che, seguendo il parallelo fino alla fine, potessi tornare sereno e appagato. E invece le cose non sono mai così semplici.»
L’idea del viaggio, la forza propulsiva, nasce anche dalla dolorosa sensazione di non appartenere a nessun luogo che l’autore prova da adolescente nelle Shetland. Si viaggia dunque anche dentro l’animo dell’autore (e quindi dentro al nostro).
Il tema della casa è molto presente nel libro, così come nella mia vita, perciò l’ho sentito molto vicino e mi ha toccata a un livello molto profondo. «Come facciamo a sapere, mi chiesi, di aver trovato il nostro posto nel mondo? Come facciamo a sapere di poter smettere di vagare?»
E ancora: «Guardiamo al passato, secondo me, come quel tempo in cui non guardavamo al passato. Proviamo nostalgia per l’assenza di nostalgia. Desideriamo gli istanti in cui non desideravamo quello che non potevamo avere. Siamo irrequieti, alla ricerca di quiete. A casa, sotto cieli che conosco da tutta la vita, penso ancora agli altri posti in cui ho vissuto - Fair Isle, Praga, Copenaghen e il Sussex - e provo una nostalgia dolorosa e sconfinata. È una sensazione collegata, anche se non identica, a quella che mi ha accompagnato durante l’adolescenza. È meno disperata, più inevitabile. Penso a tutto quello che non posso rivivere - una tempesta di piaceri, perduta - e maledico i ricordi proprio come ne maledico la mancanza.»
Attraverso i racconti dei vari paesi che visita, ci porta a riflettere sul rapporto che noi occidentali abbiamo con la terra che abitiamo. Già, perché la terra la abitiamo, non la possediamo, anche se a volte lo dimentichiamo. In alcuni paesi, come la Groenlandia, per esempio, ciò è chiarissimo, è insito nella cultura e nella storia dei suoi abitanti.
«Nel mondo industrializzato immaginiamo una divisione tra natura e cultura, campagna e città, ambiente selvatico e domestico. Magari consentiamo a un parco di superare appena i confini o un fiume di scorrere indisturbato in una città, ma la divisione e le recinzioni le vediamo lo stesso. In Groenlandia il confine che separa natura e cultura è stato completamente cancellato. La natura si avventura libera nelle vie [...] Per una cultura di cacciatori il possesso della terra non ha invece alcun senso. Fa parte dello spazio abitato della comunità tanto quanto l’aria, l’acqua e il ghiaccio: possederla, nel senso classico del termine, è inutile. Un cacciatore può avere il diritto d’uso di una determinata zona, ma non possiede la terra proprio come non possiede gli animali che ci vivono.»
Un’altra riflessione interessante è quella sugli animalisti occidentali: «Lynge sarebbe d’accordo. Per lui l’attenzione ai diritti di singoli animali dimostra l’incapacità di comprendere la natura o di riconoscere il nostro posto al suo interno. Nell’atteggiamento europeo e statunitense verso la caccia nell’Artico gli inuit vedono l’abisso incolmabile tra noi e l’ambiente. Vedono una cultura ipocrita che si affligge e prova ripugnanza per la morte di certi animali, però è responsabile di allevamenti intensivi, «controllo dei parassiti» su scala infinita, inquinamento diffuso e devastante distruzione degli habitat naturali.»
Diversamente da come potremmo pensare, l’anonimato non è nei grandi spazi ma nelle città, non si fugge a Nord per essere soli; lo stesso ci dice Knausgård nel suo Ballando al buio, riguardo la sua esperienza di insegnante in un piccolo villaggio di pescatori all’estremo Nord della Norvegia.
A certe latitudini ci si deve unire, ci si deve fidare di chi ci sta attorno per sopravvivere: è una necessità, più che una scelta. L’isolamento porta all’unione, non alla vicinanza. E a quell’unione ambisce in più momenti Malachy Tallak (a me questa cosa è risuonata moltissimo).
Potrei andare avanti all’infinito perché, immagino abbiate colto, questo libro l’ho amato molto. Ho imparato tante cose su luoghi e culture di cui sapevo poco ma che mi hanno sempre affascinata. La sensibilità e la precisione con cui l’autore ha saputo descrivere le sue sensazioni e i suoi pensieri, ha fatto riaffiorare tanti miei ricordi, tante emozioni, mi ha fatto pensare.
Per una viaggiatrice come me, che ama i libri anche perché permettono di viaggiare senza muoversi, è una vera chicca. Un libro da regalare (anche per trovare dei compagni di viaggio!).
di Monica Nastasi
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